Quello che perdiamo — in quanto fruitori ma anche, in buona misura, in quanto esecutori — con l’esecuzione e la produzione della musica a distanza non è poco: l’empatia, il feeling della presenza, il piacere di condividere le emozioni con altri, senza dimenticare la concentrazione, l’immersione in un suono che — perlomeno in certi generi musicali — siamo inclini a immaginare come intimamente associato a chi lo produce. Tutto questo lo sapevamo dai tempi della radio e della televisione: dispositivi che, se non hanno direttamente favorito, non hanno certamente ostacolato il generalizzarsi di forme di ascolto distratto (denunciate da Adorno fin dagli anni Trenta). È possibile che l’avvento del digitale e la massiccia migrazione della musica nel web, già visibili da un buon decennio e ulteriormente sollecitate dalla crisi pandemica, abbiamo contribuito a confermare questo atteggiamento; ma questi fenomeni si accompagnano soprattutto ad altre importanti novità, in parte riconducibili a un aspetto molto generale — ma non per questo meno cruciale — della più recente rivoluzione mediatica, vale a dire il fatto che il web si presenta, come ha osservato Maurizio Ferraris, prima ancora che come un sistema d’informazione o di comunicazione, come un capillare dispositivo di registrazione (e, di conseguenza, di mobilitazione). Viene in tal modo a determinarsi, oltre a un’inedita dislocazione delle opere e delle performance (dai luoghi deputati, come le sale da concerto, a ogni sorta di luogo), una nuova straordinaria produzione di tracce: ogni evento si trasforma in un atto registrato, entra di pieno diritto nella docusfera, sollecita a sua volta la produzione di altri documenti, manifesta modi di essere simili a quelli delle opere fonografiche e genera un plus-valore che è opportuno prendere in adeguata considerazione.